19/05/2021

Straining sul luogo di lavoro

Da qualche anno a questa parte, si sta assistendo sempre di più ad una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro.
In questo contesto, si colloca il concetto di straining.
Sino a qualche anno fa, lo straining era un fenomeno circoscritto alla sola scienza medica, oscurato, in campo giuridico, dal più diffuso fenomeno del mobbing. Il concetto di mobbing, infatti, veniva utilizzato per definire, nel panorama giurisprudenziale, ogni situazione di malessere e disagio sul luogo di lavoro.
Via via, però, si sono delineati sempre con maggiore precisione alternative per descrivere diverse  situazioni di conflittualità lavorativa che meritano ugualmente di essere tutelate.
Per la prima volta è il Dott. Harald Ege, esperto di psicologia del lavoro, che dà una definizione di straining inteso come "una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante".
Dunque, Ege, sotto il profilo medico, ha definito quei conflitti organizzativi non rientranti nel mobbing, ma comunque comprendenti situazioni lavorative stressanti, ingiuste e lesive (quali per esempio la dequalificazione o l'isolamento professionale), con il nuovo termine di straining.
Oggi, il fenomeno è stato recepito e sviluppato anche dalla giurisprudenza.
E nel nostro Ordinamento giuridico non può non richiamarsi la nota sentenza n. 3291 del 2016 con la quale la Corte di Cassazione, per la prima volta, ha affrontato con estrema analiticità il fenomeno straining.
Ritiene la Corte di legittimità che lo straining sia una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro.
La condotta nociva può realizzarsi anche con un'azione unica ed isolata o comunque con più azioni, ma prive di continuità, che può produrre una situazione stressante, che generi gravi disturbi psico-somatici o psico-fisici o solo psichici.
Lo straining, dunque, consiste in una situazione lavorativa conflittuale in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (dunque, fuori da concetto di mobbing), tuttavia tali da avere ripercussioni negative, costanti e permanenti, della sua condizione lavorativa e sulla salute in senso stretto, ma anche di qualità della vita in senso lato.   
Se i tratti distintivi del mobbing sono la sistematicità, la frequenza e la regolarità delle vessazioni perpetrate ai danni del mobbizzato da parte di un singolo o da un gruppo di persone, nello straining, invece, le vittime sono destinatarie di azioni ostili isolate, ma con effetti simili al mobbing.
Evidentemente, però, il fenomeno in esame non deve essere confuso con lo “stress occupazionale”. Cioè, quelle situazioni di stress ordinarie che possono affiorare nel contesto delle normali dinamiche dei rapporti lavorativi, in senso lato.
Nel caso concreto, pertanto, spetterà al giudice, in assenza di una tipizzazione delle condotte da parte del Legislatore, accertare e valutare la sussistenza di condizioni lavorative “stressogene” per il lavoratore.
La giurisprudenza, negli anni, ha mostrato un certo favor verso un ampliamento della tutela dei lavoratori nei luoghi di lavoro di fronte a comportamenti illegittimi o inadempienti, anche quando siano espressione dei tipici poteri datoriali, che in violazione dell’art. 2087 c.c. possono cagionare un danno alla salute psico-fisica degli stessi.
In questo senso, si è consolidato quell’orientamento in virtù del quale il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (c.d. "straining"), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale e altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno (Cass. Civ. n. 7844/2018).
In conclusione, dunque, stante il vuoto normativo, sono i giudici ad essere chiamati ad accertare la sussistenza in capo al lavoratore di un danno alla sua integrità psico-fisica in rapporto di causalità con il comportamento vessatorio posto in essere dal datore di lavoro (o dal superiore gerarchico).
E come ho avuto modo di suggerire in qualche altro mio intervento, sarebbe auspicabile che il fenomeno straining (come anche il mobbing) fosse oggetto di un intervento legislativo idoneo a contenere questa delega integrale alla giurisprudenza alla quale viene demandano il compito poderoso di stabilirne i tratti e definirne i contorni.
Perché se la tutela della salute dei lavoratori è, giustamente, un diritto meritevole di tutela, occorre anche evitare che nel fenomeno in esame possano ricadere indiscriminatamente tutte quelle condotte del datore di lavoro, non condivise dai suoi dipendenti, che sono espressione della sua iniziativa economica libera (art. 41 Cost.).