15/04/2021

Licenziamento collettivo illegittimo e doppio regime di tutela dei lavoratori alla luce del “Principio di non discriminazione” nel Diritto dell’Unione

Con la sentenza del 17 marzo 2021 (causa C-652/19) la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in merito ad un quesito posto dal Tribunale di Milano.
La vicenda trae origine da un licenziamento collettivo dichiarato illegittimo.
In virtù della pronuncia di illegittimità, in favore di tutti i lavoratori era stato ordinato il risarcimento dei danni e disposta la reintegrazione nell’impresa datrice di lavoro ad eccezione però di una lavoratrice, in favore della quale era stato riservato solo un trattamento indennitario.
Il Giudice ha ritenuto che la lavoratrice non potesse beneficiare dello stesso regime di tutela degli altri lavoratori licenziati perché la data di conversione del suo contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato era successiva al 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D. Lgs. n. 23 del 2015 (uno dei decreti emanati in forza della legge delega – Jobs Act).
Il quesito posto dal Tribunale meneghino, dunque, è se la normativa nazionale possa prevedere, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, due regimi di tutela differenti per i lavoratori a parità di contratto a tempo indeterminato: da un lato, i lavoratori il cui contratto a tempo indeterminato sia stato stipulato prima del 7 marzo 2015; dall’altro, quei lavoratori il cui contratto a tempo determinato si sia convertito a tempo indeterminato dopo tale data.
In particolare, il giudice milanese ha sollevato delle riserve sulla bontà della normativa italiana alla luce del Principio di non discriminazione secondo cui “Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive".
All’esito di un’articolata motivazione, la Corte Europea, con la pronuncia in commento, sostiene che “Il principio di non discriminazione” invocato dal Tribunale di Milano può comunque “giustificare” una duplice tutela.
La Corte europea, in altri termini, “salva” la normativa italiana e, in estrema sintesi, motiva così la sua decisione: occorre verificare, secondo la Corte, se esista una “ragione oggettiva” che giustifichi il diverso trattamento.
“Ragione oggettiva” significa che devono sussistere elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego, nel particolare contesto in cui si instaura, al fine di verificare se tale differenza risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l'obiettivo perseguito e risulti necessaria a tal fine.
Detti elementi possono risultare dalla particolare natura delle mansioni per l'espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro.
E proprio sulla finalità di politica sociale che la Corte Europea trova la ratio giustificatrice della normativa.
Rileva la Corte Europea che il trattamento meno favorevole della lavoratrice sia giustificato dall'obiettivo di politica sociale perseguito dal Legislatore italiano, consistente nell'incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, la conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato è assimilata a una “nuova assunzione” e, pertanto, il lavoratore interessato ottiene una forma di stabilità dell'impiego.
Conclude la Corte che rafforzare la stabilità dell'occupazione favorendo la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale: da un lato, la promozione delle assunzioni costituisce una finalità legittima di politica sociale e dell'occupazione degli Stati membri; dall'altro lato, i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori.
Di conseguenza, il beneficio della stabilità dell'impiego, inteso come un elemento portante della tutela dei prestatori di lavoro, nel caso esaminato, viene fatto salvo dalla normativa italiana, ancorché dalla sua applicazione possa scaturire una tutela differenziata in favore dei lavoratori.